Turandot Divulgazione

Idea

Il soggetto dell’algida principessa, che rifiuta il matrimonio e condanna a morte tutti i pretendenti incapaci di superare le difficili prove da lei ideate, ha origini molto antiche: compare per la prima volta nella raccolta di fiabe persiane Le mille e una notte (XII secolo) con il nome di Datmà. Nel 1298 circa troviamo tra le pagine de Il Milione di Marco Polo la principessa di Mongolia Khutulun, abile guerriera decisa a sfidare chiunque la chiedesse in sposa. Nel 1762 il drammaturgo veneziano Carlo Gozzi scrive Turandotte, poi divenuta famosa col nome di Turandot, una fiaba teatrale in cui la principessa orientale avversa alle nozze è affiancata da alcune maschere della Commedia dell’Arte (quali Truffaldino, Brighella, Pantalone e Tartaglia).

Friedrich Schiller, rielaborò la fiaba gozziana e nel 1802 la presentò al pubblico tedesco nel teatro di Weimar con il titolo Turandot, Prinzessin von China. Un secolo più tardi, nel 1905 Ferruccio Busoni compose un brano orchestrale in più movimenti a mo’ di accompagnamento musicale alla messa in scena della fiaba gozziana, che venne presentato al Deutsches Theater di Berlino nel 1911 dal regista austriaco Max Reinhardt. Sempre Busoni, nel 1917, scrisse libretto e musica di una Turandot che prevedeva parti in musica e parti recitate.

Nel 1920 Puccini, pranzando a Milano con l’amico Renato Simoni, scopre la storia di Turandot. Non lesse il testo originale di Gozzi ma la riduzione in versi di Schiller tradotta in italiano dal letterato Andrea Maffei; ne era rimasto molto colpito tanto che il 18 marzo del 1920 scriveva all’amico:
Caro Simoni, ho letto “Turandot”, mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto. […] Semplificarlo per il numero degli atti e lavorarlo per renderlo snello, efficace e soprattutto esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio.

Conquistato da questo nuovo soggetto, Puccini dedicò tutte le sue energie alla composizione di quella che sarebbe stata la sua ultima opera, avvalendosi della collaborazione dell’amico Simoni e di Giuseppe Adami (che aveva già scritto per Puccini i libretti de La rondine e Il tabarro) per la scrittura del libretto, in cui introdusse nuovi personaggi, come ad esempio quello della schiava Liù.

In quattro anni di lavoro durissimo (dal 1920 al 1924), il Maestro portò a termine quasi completamente la vicenda del principe tartaro Calaf (a cui nell’opera Puccini attribuisce la celeberrima aria Nessun dorma), innamorato della gelida principessa cinese Turandot e capace di risolvere i tre enigmi che lei proponeva a tutti coloro che desideravano la sua mano, le cui soluzioni erano la Speranza, il Sangue e Turandot. Per riprodurre l’atmosfera esotica del suo ultimo capolavoro, ambientato «A Pekino al tempo delle favole», Puccini si documentò moltissimo, studiò la musica orientale e particolarmente quella cinese, riprendendo anche tre melodie da un carillon appartenuto all’amico barone Fassini.

Troverò anche musica cinese antica e indicazioni e disegni di diversi strumenti che metteremo sulla scena (non in orchestra) (s.d. [ca. 22 marzo 1920])

Seppe inoltre ideare soluzioni timbriche nuove e suggestive, al tempo stesso violente e ricercate, rinforzando il settore orchestrale delle percussioni cui aggiunse svariati idiofoni (xilofono, glockenspiel, campane tubolari, celesta, gong ecc.). Sfortunatamente, il 29 novembre 1924 il Maestro morì a Bruxelles per una complicanza sopraggiunta a seguito di un importante intervento chirurgico alla gola, proprio quando aveva appena terminato di comporre la commovente scena del suicidio di Liù nel terzo e ultimo atto. La sua opera andò in scena 18 mesi più tardi, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala di Milano, diretta da Arturo Toscanini, che scelse di assegnare a Franco Alfano il difficile compito di comporre il finale dell’opera traendo spunto dagli appunti

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